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Perché le donne vivono più a lungo: la scienza svela il segreto della longevità

Le donne vivono più a lungo degli uomini. È così in quasi tutti i Paesi, in quasi ogni epoca, e – come si scopre ora – anche in gran parte del regno animale. È un’impronta evolutiva che attraversa specie, cromosomi e strategie di sopravvivenza. In noi, si traduce in circa cinque anni di vantaggio medio per le donne. Nel resto del regno animale, le proporzioni cambiano, ma il segno resta.

Un gruppo di ricercatori del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, insieme a quindici coautori internazionali, ha realizzato la più ampia indagine mai condotta sulle differenze di durata della vita tra maschi e femmine in 1.176 specie di mammiferi e uccelli.
Risultato: nelle specie di mammiferi, nel 72% delle specie le femmine vivono in media il 13% in più dei maschi; negli uccelli, invece, accade l’opposto: nel 68% delle specie i maschi sopravvivono alle femmine con un vantaggio medio del 5%.

La differenza affonda nelle radici dell’evoluzione. E non si tratta solo di geni: a decidere quanto viviamo — e quanto ci logoriamo per vivere — sono anche il modo in cui competiamo, come ci riproduciamo e quanto investiamo nei nostri figli.

Mammiferi vs uccelli

In principio, c’è la genetica. Nei mammiferi le femmine hanno due cromosomi X, i maschi uno X e uno Y. Negli uccelli il sistema è rovesciato: i maschi hanno due Z, le femmine un Z e un W.
Questo scambio di ruoli spiega perché il “sesso eterogametico” (quello con due cromosomi diversi, XY o ZW) tende a essere svantaggiato. Chi ne ha due uguali può compensare una mutazione dannosa sull’altro cromosoma; chi ne ha uno solo, no. Nei mammiferi dunque gli uomini, nei volatili le femmine. È la “eterogametic sex hypothesis”, la prima pista per capire chi invecchia più in fretta.

Eppure la genetica da sola non regge.
Le eccezioni abbondano. Nei rapaci, ad esempio, le femmine vivono più a lungo e sono più grandi dei maschi. Negli elefanti, le madri sopravvivono ai maschi di anni, ma non nei canidi. Ci sono roditori che ribaltano il pronostico e lemuri che annullano la differenza.
«Alcune specie hanno mostrato l’opposto di quanto previsto», spiega Johanna Stärk, prima autrice dello studio. «In molti rapaci le femmine sono sia più grandi che più longeve. Quindi i cromosomi sessuali possono essere solo una parte della storia».

Quel che emerge, guardando il quadro complessivo, è che la biologia dei sessi si gioca su più livelli: geni, ormoni, competizione e ambiente. Nei mammiferi, dove il testosterone alimenta forza e aggressività, l’acceleratore metabolico resta schiacciato per tutta la vita, con costi in termini di stress ossidativo, infiammazione e rischi comportamentali. Negli uccelli, dove le dinamiche sociali sono più stabili e la monogamia più frequente, l’equilibrio si sposta.

Non è solo questione di cromosomi, dunque. È questione di strategie evolutive: a che prezzo una specie sceglie di riprodursi, combattere, sopravvivere.

Quanto costa nascere maschi

La differenza tra maschi e femmine non nasce in laboratorio, ma nel campo di battaglia della riproduzione. C’è una regola implicita in natura: più è dura la competizione tra maschi, più breve è la loro vita. Lo studio lo conferma con dati su scala planetaria. Nei mammiferi poliginici – quelli in cui pochi maschi monopolizzano più femmine – la pressione riproduttiva è feroce. I maschi investono in forza, muscoli, ornamenti, aggressività. Tutto questo aumenta il successo genetico ma consuma l’organismo. Il risultato: maschi che invecchiano prima e muoiono prima.

Nei mammiferi monogami, dove il conflitto tra maschi si riduce e le cure parentali si condividono, il divario si restringe. In certi casi si annulla. Negli uccelli, dove la monogamia è più comune e la competizione meno brutale, lo schema si ribalta: sono spesso i maschi a durare di più. La spiegazione è evolutiva, non morale: meno competizione, meno ferite, meno logorio.

Il fattore chiave è il trade-off tra riproduzione e sopravvivenza. Un maschio può massimizzare la fertilità a breve termine oppure conservare energie per la longevità. Raramente può fare entrambe le cose.
Il dimorfismo sessuale, poi, aggiunge peso: nelle specie dove i maschi sono molto più grandi, la spesa metabolica e immunitaria cresce, e la durata della vita crolla. L’energia bruciata per crescere e combattere non resta disponibile per riparare.

Nei mammiferi poligami con maschi dominanti – leoni, cervi, gorilla – il divario è evidente: più testosterone, più rischio, meno anni. Negli uccelli monogami come i cigni o gli albatri, la coppia stabile e la cooperazione abbassano i costi biologici e sociali. La monogamia, in altre parole, funziona da ammortizzatore. E dove compare, le differenze si smorzano.

Ma non c’è solo sesso e competizione. Anche il modo in cui una specie cresce i propri piccoli entra nell’equazione.

Chi accudisce vive di più

Un’altra regola meno visibile: chi investe nella cura dei figli tende a vivere di più. Nei mammiferi, questo ruolo ricade quasi sempre sulle femmine, e i dati lo confermano.
In specie longeve come i primati, dove i cuccioli restano dipendenti per anni, la selezione naturale favorisce le femmine in grado di sopravvivere abbastanza da accompagnare la prole all’indipendenza. È un vantaggio diretto e misurabile: ogni anno in più di vita aumenta la probabilità che i geni della madre passino alla generazione successiva.

Nei mammiferi sociali, come gli elefanti o i babbuini, questa spinta è fortissima. Negli uccelli la dinamica cambia: la cura della prole è più spesso condivisa o addirittura maschile. Ci sono specie in cui i maschi incubano le uova e nutrono i piccoli, e in questi casi sono loro a vivere più a lungo.
La biologia, insomma, non “premia” un sesso in particolare: premia il sesso che garantisce meglio la sopravvivenza della prole.

Lo studio rileva anche che il legame tra cura parentale e longevità è più marcato nelle specie con sviluppo lento e vita lunga — un segnale di selezione per la stabilità. In parole povere: se allevare figli costa molto tempo ed energia, la natura favorisce chi riesce a sopravvivere a lungo abbastanza da completare l’investimento.

Questo meccanismo spiega perché, negli umani, la maggiore sopravvivenza femminile non sia un’anomalia, ma una prosecuzione del trend mammifero. Il corpo femminile è costruito per sostenere gestazione e accudimento; la biologia lo protegge più a lungo.

Le donne vivono più a lungo ma peggio, la causa è soprattutto sociale

Gli zoo come laboratorio naturale

L’ultima verifica arriva dal confronto tra animali in natura e animali in cattività.
Negli zoo, dove non ci sono predatori, fame, malattie endemiche o inverni letali, le aspettative di vita aumentano per entrambi i sessi. Ma la differenza resta: più piccola, mai azzerata.
Nei mammiferi, il vantaggio femminile medio è di circa 12% in cattività contro il 18% in natura. Negli uccelli, il vantaggio maschile è di circa 5% in cattività e oltre cinque volte maggiore allo stato selvatico.

Il dato sorprende per coerenza: anche senza minacce ambientali, la forbice resiste. Significa che le radici del fenomeno sono genetiche e fisiologiche, non solo ecologiche.

Le condizioni controllate tagliano fuori fame e predatori, ma non cancellano le differenze tra chi investe di più in competizione e chi in sopravvivenza. Gli studiosi parlano di “effetti residui” dell’evoluzione: anche in contesti dove la selezione naturale è sospesa, la storia filogenetica continua a modellare i corpi.

L’esperimento involontario degli zoo ha un parallelo perfetto nel genere umano.
Negli ultimi due secoli, le donne hanno mantenuto un vantaggio medio di 5-6 anni sugli uomini nonostante crolli la mortalità infantile, migliori la dieta e si riducano le malattie infettive. Il divario si è ridotto ma non è mai sparito.

La medicina, come gli zoo, attenua l’ambiente ma non riscrive la biologia. Le donne continuano a morire più tardi, gli uomini prima, e il pattern segue la logica mammifera più che quella culturale.

La legge della sopravvivenza al femminile

Quando si mettono insieme tutti i dati, emerge un quadro coerente: le differenze di sopravvivenza tra i sessi sono un’eredità evolutiva profonda, non un effetto recente.

Le femmine di gorilla e scimpanzé vivono più a lungo dei maschi, proprio come accade nell’uomo, ma in misura ancora più netta. Gli studiosi del Max Planck fanno notare che il vantaggio femminile umano è addirittura più piccolo di quello osservato in molti altri primati: un segno che, in noi, la competizione tra maschi è meno estrema, la cooperazione sociale più forte e la monogamia più diffusa.
Il tratto di specie, tuttavia, resta.

“Gli esseri umani si conformano pienamente al modello generale dei mammiferi, che vede un vantaggio femminile nella durata della vita” scrivono gli autori. gli esseri umani si conformano pienamente al modello generale dei mammiferi, che vede un vantaggio femminile nella durata della vita.

I numeri storici lo confermano. In Svezia, dove le statistiche demografiche coprono oltre due secoli, il vantaggio femminile era sorprendentemente ridotto nel Settecento. Non perché le donne fossero biologicamente più deboli, ma perché morivano spesso di parto, e quel rischio altissimo cancellava gran parte della loro naturale resistenza. Con il crollo della mortalità materna tra Ottocento e Novecento, quel freno è scomparso e la forbice si è riaperta. Oggi le svedesi vivono in media oltre cinque anni più degli uomini, e in Paesi come il Giappone il margine supera i sette.

La biologia gioca su tempi lunghi. Il progresso può attenuare le distanze ma non invertire il segno. L’evoluzione ha selezionato corpi femminili più resistenti e comportamenti maschili più rischiosi, e questa asimmetria continua a riflettersi nelle statistiche moderne.
Le donne non vivono più a lungo perché vivono “meglio”: vivono più a lungo perché la loro fisiologia è costruita per resistere — per sopravvivere abbastanza da garantire la sopravvivenza della prole. È un vantaggio antico, che medicina e modernità possono solo mitigare, non cancellare.

Cosa resta da capire

Gli autori dello studio restano prudenti. Il modello cromosomico spiega molto, ma non tutto. La selezione sessuale dà un quadro coerente, ma lascia fuori eccezioni importanti.
Restano aperti alcuni punti: quanto contano i costi ormonali (testosterone e estrogeni)? Che ruolo giocano i comportamenti di rischio (predazione, mobilità, gerarchia sociale)? Come si distribuiscono le differenze all’interno della stessa specie in contesti ambientali diversi?

Un fatto però è certo: le differenze tra i sessi nella durata della vita non sono un prodotto del mondo moderno. Non nascono da stress, lavoro o stili di vita contemporanei, ma da meccanismi selettivi vecchi di milioni di anni.

La longevità è il risultato di scelte, compromessi e costi evolutivi. E quel che oggi misuriamo come “vantaggio femminile” è, in realtà, una strategia di specie: assicurare la continuità della prole, anche a costo di far vivere un po’ meno chi ha corso di più.

Popolazione

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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