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Siamo monogami per natura? Per la scienza “più degli scimpanzè e meno dei licaoni”

Per decenni, il dibattito sul sistema di accoppiamento umano è stato un campo di battaglia tra biologi ed antropologi. La nostra storia culturale è piena di diversità, con la poliginia (un uomo sposato con più donne) consentita in circa l’85% delle società umane preindustriali esaminate. Questa varietà ha portato molti a credere che la monogamia, comune in gran parte del mondo occidentale moderno, sia un fenomeno recente, quasi una “novità evolutiva”. Ma cosa succede se mettiamo da parte le regole matrimoniali e guardiamo solo al risultato finale della riproduzione?

Una nuova analisi comparativa condotta da Mark Dyble, del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Cambridge, pubblicata in Proceedings of the Royal Society B, fornisce una risposta chiara a questa domanda. Il dottor Dyble ha confrontato i modelli riproduttivi umani con quelli di 34 specie di mammiferi non umani. Il risultato principale, che scuote le ipotesi sulla nostra evoluzione sociale, è che, nonostante la grande diversità culturale, la frequenza complessiva dei fratelli nati dagli stessi genitori negli esseri umani ci colloca saldamente nel cluster delle specie socialmente monogame. Questo segnale indica che la monogamia è, in realtà, il sistema di accoppiamento “modale” per l’Homo sapiens.

Lo studio sulla monogamia tra specie

Lo studio, invece di basarsi sulle norme sociali e quindi sulla convenzione del matrimonio, si è concentrato sulla “composizione della fratellanza”. L’obiettivo? Misurare la frequenza relativa dei fratelli cosiddetti “germani”, che condividono entrambi i genitori, rispetto ai fratellastri (che condividono un solo genitore) in un ampio campione demografico e archeologico. All’estremo, l’accoppiamento monogamo esclusivo per tutta la vita produce solo fratelli nati dagli stessi genitori; l’accoppiamento casuale ne produce pochissimi.

Il dottor Dyble ha aggregato dati provenienti da un campione globale di 103 popolazioni umane (per un totale di quasi 200.000 coppie di fratelli). Questo campione è diviso in due tipi di dati robusti:
1. Dati etnografici, cioè le genealogie compilate da etnografi in 94 società umane preindustriali con diversi tipi di sussistenza (come orticoltori, cacciatori-raccoglitori, pastori e agricoltori).
2. Dati archeologici: analisi del Dna antico (aDna) di parentela da nove siti archeologici in Europa e Anatolia (risalenti a periodi come il Neolitico e l’Età del Bronzo).

Questa combinazione ha permesso di aggiungere una preziosa profondità temporale al campione umano. Se confrontati con i dati genetici di parentela di 34 specie di mammiferi non umani, per le quali è stata determinata la distribuzione dei fratelli, ecco cosa emerge.

I risultati

L’analisi dei dati ha mostrato una chiara associazione degli umani con la categoria “monogamia” del regno animale. Nello specifico, la percentuale media di fratelli “germani” nell’intero campione umano è stata del 66%. Le specie di mammiferi non umani socialmente monogami mostrano una media molto simile, circa il 70,6% di fratelli “germani”. Al contrario, i mammiferi non monogami mostrano una media estremamente bassa, solo l’8,6% di fratelli “germani”, e in alcuni casi come gli scimpanzé, il tasso scende al 4,1%.

In sintesi, la nostra tendenza riproduttiva ci avvicina chiaramente a specie monogame come i suricati, con il loro 59% di fratelli provenienti da stessi genitori o i licaoni, noti anche come cani selvatici africani, che battono l’uomo con un 85% di fratelli provenienti da stessi genitori.

È importante notare che, pur essendo il tasso medio del 66%, il range umano è ampio: si va dal 26% (in un sito neolitico in Gran Bretagna) fino al 100% in altre quattro diverse popolazioni studiate. Questo dimostra che, sebbene ci sia grande diversità culturale, la monogamia rimane la tendenza statistica più forte.

Il “rischio” di non monogamia si può misurare

Per quantificare quanto poco serva per allontanarsi dalla monogamia, il dottor Dyble ha costruito un modello computazionale che varia il livello di “deviazione dalla monogamia” tra lo “0”, cioè “monogamia esclusiva”, e l’1, cioè accoppiamento casuale. Questo modello ha rivelato una relazione non lineare tra la deviazione e la percentuale di fratelli germani. In altre parole: anche deviazioni relativamente modeste dalla monogamia possono avere un effetto sproporzionato nel ridurre la proporzione di fratelli germani. Ad esempio, una deviazione stimata del 25% (che potrebbe essere vista come un tasso di paternità extra-coppia del 25% o un alto tasso di monogamia seriale) ridurrebbe i fratelli germani a circa il 40%.

Estrapolando questo modello sui dati umani reali, è stato stimato che il tasso medio di “deviazione dalla monogamia” nel campione umano si aggira intorno al 12%. Questo tasso è simile a quello stimato per le altre specie monogame (9,9%) e ben inferiore a quello stimato per le specie non monogame (68,1%).

Le implicazioni demografiche ed evolutive

Questi risultati rafforzano le ipotesi evolutive che vedono il legame di coppia come cruciale per lo sviluppo umano. L’alto numero di fratelli germani è fondamentale perché, dal punto di vista genetico, un individuo è imparentato con i suoi fratelli germani tanto quanto lo sarebbe con i suoi figli. Questa vicinanza genetica, secondo i ricercatori, favorisce l’altruismo e la cooperazione sociale, rendendo più probabile l’aiuto nella crescita dei fratelli minori o la creazione di sistemi di cura cooperativa.

La monogamia, o più in generale la stabilità del legame di coppia, si è rivelata quindi essenziale per:
1. Fornire la certezza della paternità necessaria per l’aumento dell’investimento paterno, cruciale nell’evoluzione dell’uomo.
2. Facilitare l’istituzione di estese reti di parentela (identificazione dei parenti paterni e acquisiti) necessarie per costruire le grandi società e le reti di scambio culturale che hanno portato al successo dell’Homo sapiens.

È importante sottolineare che ciò che è stato misurato analizzando la composizione dei fratelli riguarda i modelli di riproduzione e non i modelli di accoppiamento, e rappresenta quindi una valutazione della monogamia riproduttiva, piuttosto che della monogamia nell’accoppiamento. “Nella maggior parte dei mammiferi – ha spiegato l’autore della ricerca -, i comportamenti di accoppiamento e i modelli riproduttivi tendono a essere strettamente collegati. Negli esseri umani, questo legame è attenuato in parte dal controllo delle nascite, non solo grazie ai contraccettivi altamente efficaci sviluppati nell’ultimo secolo, ma anche ai metodi “naturali” di controllo della fertilità e alle pratiche culturali per regolare la riproduzione, che sono diffuse in molte società”.
“Inoltre – aggiunge -, la monogamia seriale può comportare una successione di partner riproduttivi (e quindi la produzione di fratellastri), pur mantenendo quelle condizioni di maggiore certezza della paternità che si ritiene siano necessarie per l’aumento dell’investimento paterno, considerato cruciale nell’evoluzione del ciclo di vita umano. Lo stesso vale per il matrimonio poliginico: mentre nei mammiferi poligini l’accoppiamento prevede solitamente un turnover regolare dei maschi dominanti tra una coorte riproduttiva e l’altra, con il risultato che si generano pochi fratelli germani, nei matrimoni poliginici umani le unioni possono essere molto stabili, producendo così una combinazione di fratelli germani e mezzi-fratelli paterni, e creando condizioni favorevoli all’investimento paterno. In questo senso, è probabilmente l’evoluzione del legame di coppia in generale, più che la monogamia in senso stretto, ad aver avuto un ruolo importante nell’evoluzione della genitorialità”.

Fertilità

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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